Un leone genovese in marmo
Il leone accucciato rivolge lo sguardo verso l’alto e verso la nostra sinistra, facendo sporgere i canini dalla bocca semiaperta. Il muso, possente ma docile, è lavorato nel marmo con esiti di grande tenerezza, quasi fosse cera, come si apprezza nella pelle degli angoli della bocca, abbondante e cedevole. Ciò che più sorprende è poi la foltissima e regale criniera che, divisa in tre file, segue la rotazione del collo adagiandosi sul petto, sulle scapole e sulle spalle dell’animale. Tra i ciuffi si scorgono i fori del trapano, gli stessi che separano le ciocche delle zampe anteriori adagiate sullo spigolo del basamento rettangolare.
Tradizionalmente, il leone rappresenta la regalità e, quando è affiancato all’effigie di un personaggio (ad esempio, nei monumenti funebri), può riferirsi all’incarnazione delle sue virtù eroiche: la forza, la virtù e la prudenza; è un simbolo quindi di coraggio, ma anche di generosità e misericordia. Inoltre, come si apprende dai bestiari medievali, al leone è riconosciuta la capacità di dormire ad occhi aperti, cosa che lo rende l’emblema della guardia più attenta.
Ed è questo il presupposto alla base della grande tradizione dei leoni stilofori messi a custodia degli ingressi delle cattedrali medievali, ben attestata ad esempio nei protiri romanici di ambito padano, come quelli di Benedetto Antelami (1150-1230 circa), a Fidenza e Genova e proseguita in Lombardia e il Liguria durante il Trecento.
Certamente l’espressionismo sintetico spinge la data di esecuzione della scultura in esame nel pieno Cinquecento. L’insistenza nella resa del corruccio delle sopracciglia, nella piega amara delle labbra, nell’intensità dello sguardo caratterizza vari esemplari leonini scolpiti nel XVI secolo fra Liguria, Toscana e Sicilia: tre regioni affacciate sul Tirreno e connesse da molteplici legami artistici.
In particolare, il nostro leone trova la sua più convincente collocazione in area genovese, uno dei maggiori empori di marmi lavorati dell’intera Europa cinquecentesca capace di attirare numerose maestranze: i Gagini o Gaggini, architetti e scultori originari delle Alpi, sono attivi a Genova a partire dal XV secolo, lavorano per il Duomo e per i Doria; alla fine del Quattrocento alcuni di loro si trasferiscono in Sicilia, a Messina e Palermo, influenzando profondamente la scultura locale nella transizione rinascimentale. Della cultura gagginiana il nostro leone eredita certamente la dolcezza delle superfici.
A Genova, poi, visse e lavorò anche il fiorentino Giovan Angelo Montorsoli, allievo di Michelangelo, che pure raggiungerà in Sicilia e realizzerà la celebre fontana di Orione (1551). Non è un caso che fra i mostri marini in pietra nera del monumento ve ne sia uno molto simile nel muso al nostro candido felino.
Fra i numerosi artisti attivi a Genova spiccano indubbiamente i lombardi, come Gian Giacomo e Guglielmo della Porta che, con un terzo scultore della stessa provenienza, Niccolò di Corte, vi lavorarono sia in Cattedrale -nella famosa cappella Cybo e in quella di san Giovanni- che per i Palazzi nobiliari. Le loro sculture aggiornarono il gusto della città ligure con un linguaggio di più grande respiro che è alla base ad esempio dei superespressivi leoni del Palazzo Salvago, databili appunto alla metà del Cinquecento (fig. 7). Questi due felini presentano un’abbondanza di sinuosa pelle, negli angoli della bocca e tra gli occhi e la fronte, che ne accentua l’espressione fortemente drammatica, la stessa che si ritrova nel nostro animale.
E questa raffigurazione di leoni dalle bocche carnose e dalle arcate sopracciliari fortemente corrugate raggiungerà di lì a poco la Spagna grazie proprio a Niccolò da Corte, il quale li scolpirà nella pietra per la grande finestra di Nettuno nel Palazzo dell’imperatore Carlo V all’Alhambra di Granada (1548).
Niccolò da Corte (1500?- Granada, 1552), bottega di
LEONE
1540-1550
Marmo di Carrara
Cm 44 x 28 x 39h
Riferimenti: F. Gandolfo, Il Protiro lombardo, in ‘Storia dell’Arte’ XXXIV, 1978, p. 211-220; La scultura a Genova e in Liguria, 1. Dalle origini al Cinquecento, 1987, p. 144.
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